La Santaché e le Sexwork

L’ultima trovata della Santaché di portare la prostituzione all’interno degli esercizi ricettivi – bar, ristoranti ecc. – è al quanto sconvolgente e raccapricciante. Segna un ritorno agli anni ’50, quando la prostituzione si esercitava nelle “case chiuse”, dove le donne non avevano la possibilità di autodeterminazione, erano sfruttate dai o dalle loro padrone, un ritorno ai casini presenti nelle città. Un ritorno che a molti ben pensanti soprattutto maschietti – anche ai soldati USA di Vicenza – fa comodo. Purtroppo toglieremmo “il fastidio” dalla strada, ma accentueremo lo sfruttamento femminile, poiché queste donne non sempre potranno gestire il loro mestiere autonomamente. Il “lavoro del sesso” non è ancora giuridicamente riconosciuto se non dal punto di vista sanzionatorio. Altro sarebbe se questa professione rientrasse nelle attività commerciali e di libera professione.

La soluzione al problema dello sfruttamento della prostituzione è ancora un tabù ed è molto ardua; questo grazie anche ai nostri preconcetti che mirano a rimuovere le questioni ivi legate, a vedere solo quelle più perbeniste e non ad affrontarla e a riconoscerla come sfruttamento delle lavoratrici e lavoratori in un determinato lavoro. In una Repubblica basata sul predominio del maschio sulla donna – questa è infatti, ancora l’Italia del 2000 – fa comodo lasciare perdere gli aspetti concreti per risolvere quelli del buon gusto.

La questione aperta per l’ennesima volta dalla Santaché paladina delle donne, non fa altro che restituire il nostro corpo a solo oggetto di desiderio per l’uomo o chi per esso, d’altronde, probabilmente, le nostre ministre sono abituate ad assecondare il desiderio di colui che si crede il “dio” in terra ed è a capo del nostro governo.    

Irene Rui